Psicologi: a trent’anni dalla legge 56 pronti a rispondere ai nuovi bisogni di salute

Di David Lazzari

22 OTT 2019

La leggi fondative della professione

Nel 1989 – dopo oltre venti anni di battaglie – si giunse con la legge 56 – ad una normativa avanzata e moderna, che definisce un significativo spazio d’azione e applicazione per la professione di psicologo, regolamenta l’attività psicoterapica (riservandola a medici e psicologi con apposita formazione specialistica) e – innovativamente – prevede, previo consenso del paziente, lo scambio di informazioni tra psicoterapeuta e il medico curante.

La professione psicologica viene delineata nella legge 56 come connotata da attività che vanno dalla prevenzione sino alla riabilitazione e si rivolgono non solo alla singola persona ma al gruppo, agli organismi sociali e alla comunità, con ciò prefigurando una figura attiva a vari livelli nella rete sociale.

In questi 30 anni di applicazione della legge possiamo dire che essa ha dato buona prova di sé, che la psicologia italiana è molto cresciuta sia negli ambiti accademici e di ricerca che in quelli applicativi: in pochi decenni abbiamo assistito ad un fiorire di realtà che forse non ha molti paragoni nella storia delle scienze e delle professioni.

Di tutto ciò possiamo essere senz’altro soddisfatti, anche se questo successo ha comportato delle criticità. In questa sede segnaliamo quelle che riteniamo più significative per il presente ed il futuro:

  1. il proliferare dei corsi di laurea, soprattutto dopo la sciagurata riforma del 3+2, che ha tolto unitarietà e progressione logica alla precedente laurea di 5 anni strutturata su un biennio unitario e un triennio diversificato per obiettivi più specifici. Tale proliferazione ha portato ad un numero importante di iscritti all’Ordine, che sono attualmente 110 mila, ovvero uno psicologo ogni 545 cittadini, dato che non ha eguali a livello internazionale;
  2. una formazione orientata in senso prevalentemente clinico, che ha fatto si che la stragrande maggioranza (oltre il 90%) degli psicologi che hanno conseguito una specializzazione post laurea lo ha fatto nel settore clinico-psicoterapico (si tenga presente che il 50% circa degli iscritti all’Ordine è anche psicoterapeuta);
  3. l diffuso interesse per la psicologia ha portato ad una serie di invasioni di campo non regolamentate e non programmate, da parte di altre professioni (es.: pedagogisti, filosofi) o da parte di figure nate ad hoc (es.: coach, counselor), che non ha riguardato il campo scientifico bensì quello applicativo, generando confusione e perplessità nell’utenza.

Se pensiamo ai primi due punti è evidente che la rapida progressione dei laureati e degli iscritti all’Ordine ha creato una seria difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro, costringendo molti giovani psicologi a fare lavori diversi o non qualificati: uno spreco per chi ha investito dai sei agli undici anni per la propria formazione e anche per la società, che forma figure qualificate per poi non utilizzarle o sotto-utilizzarle. Inoltre in molti corsi di laurea il rapporto tra studenti, docenti e strutture ha reso molto difficoltoso l’effettuazione di esperienze operative, determinando un eccesso di formazione solo teorica e l’utilizzo del tirocinio post lauream e della specializzazione come unica sede per sperimentare sul campo.

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